domenica 27 maggio 2012

Piccoli Aggiornamenti

Piccoli.
Insomma... per me potrebbero anche essere piccoli ma per altri potrebbero anche essere significativi ed importanti (cosa di cui dubito fortemente).
In teoria avrei dovuto scrivere questo post un paio di giorni fa, ma per un motivo o per un altro non sono proprio riuscito a farlo.

Ad ogni modo. Partirei con l'aggiornamento più recente:



La storia di Project Sun è conclusa.
No, non tutta. Solo quella necessaria per la realizzazione del primo numero. Se paragonata all'intera storia potrei affermare di essere semplicemente all'inizio, il che per me è un bene.
Come al solito, quando scrivo, finisco per affezionarmi terribilmente ai miei stessi personaggi e non mi sento pronto ad abbandonarli così presto. Proprio come è successo con i personaggi de "L'ira dei Quattro", anche in questo caso mi risulta difficile non pensare alle sorti di ogni singolo personaggio, alla loro personale storia e al loro particolare carattere. Forse è proprio questo particolare affetto che fa di una storia, una BUONA storia. O forse sono semplicemente io lo stupido che si affeziona a personaggi inesistenti presenti solo all'interno della mia mente, proprio come succede da bambini con l'amichetto immaginario. Però sono contento che ciò avvenga... e al diavolo ciò che pensa la gente. Corretto ragionamento, giusto?

Ne approfitto per ringraziare tutti coloro che in un modo o nell'altro stanno dimostrando il loro interesse sia a me che a Valeria per questo progetto. Quando mi dicevano che è proprio il pubblico la vera fonte di carica per andare avanti stentavo a crederci, adesso (seppur ancora si sappia poco e niente riguardo la trama) ne sono consapevole.
Voglio inoltre ricordare a chiunque bazzichi qui dentro, che il sito della Ribellione aspetta solo nuove reclute. Tra un paio di giorni cominceranno ad essere inviati messaggi da parte dei Crushed Ice... e vi dico già da subito di cominciare a spremervi le meningi perchè leggerli non sarà una passeggiata.

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Ho vinto Muses.
Grazie ad un contest indetto da Mondadori, sono riuscito a vincere una copia di un libro che mi ha ispirato sin dalle prime notizie gettate a piccole quantità su Facebook o Twitter.
Parlo proprio di Muses, il nuovo libro di Francesco Falconi.
Ho "semplicemente" creato un piccolo Booktrailer che potete trovare QUI e poi c'è stata una sfirza di "Mi piace"
Quindi grazie mille a tutti coloro che hanno messo un "Mi piace" al suddetto video, volontariamente e non (quest'ultima forse non dovevo dirla).
Ad ogni modo, spero di iniziare a leggere il suddetto libro (che ho ricevuto immediatamente grazie alla insolita efficienza delle poste) che Francesco ha autografato con tanto di dedica. Purtroppo ho ancora due libri da completare ma non passerà molto prima che io li finisca e inizi questo. Comunque ne sono certo, non ne rimarrò deluso.



Pulsarshine.
Ok... l'avevo interrotto per dedicarmi a Project Sun, ma non per questo ho smesso di pensarci. Lentamente la trama è stata elaborata nella mia testa (insieme a quella di Project Sun, L'Ira dei Quattro e Seaways... sì, sono folle). Eppure come è successo per altre storie, e come prima avevo scritto, bisogna affezionarsi ai personaggi e alle loro personali vicende. Tutto ciò non sta avvenendo con Pulsarshine, e non so se esserne angosciato o prendere la cosa con diffidenza. Mi spiego: la trama a me piace (ci mancherebbe se non mi piacesse) e piace anche alle sole due persone a cui l'ho fatta leggere; i personaggi fin'ora non mi hanno deluso e devo dire che Nadia ha un carattere particolare rispetto a tutti gli altri miei personaggi, quindi dovrebbe in teoria spronarmi. Eppure ancora io e loro siamo due entità separate, non abbiamo trovato quel punto di unione che ci permetta di convivere insieme fino alla fine della storia. Con ciò non sto dicendo che non la continuerò, anche perchè sono convinto che lentamente un qualche tipo di unione verrà a galla. O almeno lo spero.




Racconti in raccolta.
Cioè? Mi spiego... ho partecipato a due concorsi (per l'esattezza Asylum 100 e Non spingete quel bottone) rispettivamente con due racconti: Paura e Io non sono cattivo.
"Proviamoci" ho pensato inviandoli entrambi. "Cos'ho da perdere?"
Ebbene, dopo un paio di settimane è giunta notizia che "Paura" è stato scelto per far parte della raccolta Asysum 100. Potete solo immaginare la mia felicità non appena l'ho saputo.
Per quanto riguarda "Io non sono cattivo" c'è ancora da aspettare, dato che di solito dicono se è stato accettato o meno. Ma sono fiducioso e chissà se tra qualche giorno posterò un altro aggiornamento con un'altra buona notizia.



Fine degli aggiornamenti.
Andate in pace.

domenica 13 maggio 2012

La forza dell'odio




«Quanti questa volta?»
La mia voce è assente, sembra quasi che a parlare non sia una persona ma un automa. Posso solo immaginare la risposta: è scontata ovviamente. Perché l’ho chiesto quindi? Per avere un briciolo di speranza? Per convincermi che forse il numero è stato dimezzato rispetto all’ultima volta?
Forse non voglio sapere quanti, ma chi.
«Jackt, Holloway, Baker, Madison, Davies e Willard» risponde l’uomo in piedi accanto a me.
Il suo tono è freddo, senza un briciolo di emozione. Sapeva meglio di me ciò che volevo: ormai è impossibile non riuscire a capire al volo un proprio compagno.
Non sposto lo sguardo dal muro crepato e in parte corroso che ho di fronte. Come potrei? Lì, in quella parete illuminata dalla fioca luce gialla della lampada che oscilla dal soffitto, c’è la mia personale bacheca alla quale affiggo le foto dei miei compagni caduti. Tra le cinquanta già presenti in essa vedo aggiungersi quasi per magia quelle dei sei appena nominati.
«Fuori piove a dirotto, il terreno è un ammasso di fango e acqua putrida. Il forte vento copre ogni forma di rumore… Non sapevano che li stavano aspettando.»
«Mi basti sapere questo. Voglio ricordarli come degli eroi, non come degli stolti» gli dico non smettendo di fissare il muro mentre sento l’uomo posare il fucile a terra, per poi sedersi al mio fianco. Avverto la sua forte mano poggiarsi sulla mia spalla sinistra nello stesso momento in cui la bacheca immaginaria svanisce davanti ai miei occhi, facendo riapparire il muro deturpato.
Un conforto. Ecco cosa vuole trasmettermi con quel gesto, in tempi come questi è tutto ciò che ci rimane: sapere di aver accanto qualcuno di importante, in grado di alleviare i problemi e far mutare in dei semplici ostacoli le continue minacce che questa guerra ci pone.
Appoggio la mano sulla sua chiudendo gli occhi e abbassando il capo.
Quanti morti dall’inizio? Quanti amici abbiamo perso? Quante persone che hanno fatto parte della nostra vita adesso non ci sono più? Ho perso il conto. No, in realtà non l’ho mai iniziato per non associare dei numeri a delle persone: una conta di sangue in continua crescita, giorno dopo giorno.
«Ce la faremo» mi dice l’uomo stringendo la presa sulla mia spalla.
«Hai paura, Zane?» gli chiedo non aprendo gli occhi.
«Costantemente. Ma è il pensiero di ciò che potrei perdere a metterla in secondo piano.»
Ciò che potremmo perdere allevia la paura. Strano, avrei detto il contrario, dato che in un caso come questo la paura viene accentuata. Non riuscirei mai a placare il mio terrore se solo pensassi di poter perdere qualcuno a me caro.
Una potente esplosione proveniente dalla superficie fa vibrare lo stretto cunicolo nel quale mi trovo. Non alzo gli occhi, non mi faccio prendere dal panico. È una cosa ormai normale, come le piccole scosse sismiche in una regione vulcanica.
Ciò che potrei perdere…
Non so chi ci fosse nella precedente vita di Zane, o chi ci sia ancora. Non abbiamo mai parlato di questo, sappiamo entrambi che il passato è l’arma più pericolosa di tutte: ci uccide lentamente nella maniera più cruda e violenta. Non possiamo sfuggirgli, ma non parlarne fa in modo di non accelerare il processo di tortura psicologica. Velocizza semplicemente il tempo che intercorre tra questo scempio che ormai ci ostiniamo a chiamare vita e la morte. Ma ormai di tempo ne è rimasto ben poco e ogni secondo passato qui è semplicemente un numero in meno nel countdown che si avvicina inesorabilmente verso lo zero.
«Cosa hai da perdere?» gli domando senza pensare minimamente di togliere la mia mano dalla sua.
«La mia voglia di vivere» risponde Zane. «Fin quando ho quella ad alimentarmi so bene che la paura di non farcela sarà sempre dimezzata.»
Quelle parole colpiscono la mia psiche quasi fossero delle frecce acuminate, scagliate addosso ad un manichino che funge da bersaglio.
«E tu? Hai qualcosa per cui vale la pena restare in vita?»
«Non qualcosa, ma qualcuno» gli rispondo.
«Senti senti. Riley ha qualcuno nella sua vita per cui vuole restare vivo. E dimmi un po’… chi è?»
«Una donna…»
«Ma quante fantastiche rivelazioni!» dice Zane con entusiasmo mentre mi accorgo che la sua voce esprime allegria allo stato puro.
Mi domando come ci riesca. Come può avere sempre quel tono gioioso, quando fuori di qui la gente non ha ancora capito per quale motivo si combatte ormai da quattro anni?
«Non credevo avessi una donna. Perché non mi hai mai detto nulla?»
«Perché non lo ritenevo necessario.»
«E adesso?»
Il mio respiro regolare tradisce la mia tristezza. Pensare a lei, alla sua bellezza e all’amore che provavo – e continuo ancora a provare – mi distrugge da dentro. È un incendio che parte dal mio cuore e lentamente si propaga anche al resto del corpo. Tengo ancora lo sguardo abbassato.
«Adesso le carte in tavola sono cambiate.»
«In che senso?»
Preferisco non toccare l’argomento. Per quanto male possa fare, credo che restare in silenzio sia la scelta più giusta.
«Avresti dovuto conoscerla. Credo che ti sarebbe piaciuta all’istante. Tutti coloro che avevano il piacere di incontrarla mi dicevano quanto io fossi fortunato ad avere al mio fianco una donna come lei» gli dico con un filo di voce. La mia gola è secca come un deserto e l’aria che continuo a respirare non agevola per niente la situazione. «Non so quello che darei per stare ancora un solo secondo insieme a lei. Non hai idea, Zane. Non hai idea di quanto mi manchino i suoi abbracci o le sue semplici parole. La sua voce… diamine, se ci penso sembra che lei sia proprio qui accanto a me, per rincuorarmi di…»
Una seconda esplosione interrompe le mie parole. L’intero rifugio sembra voglia crollarci addosso e il pulviscolo che cade dal soffitto sembra approvare la mia ipotesi. Stringo maggiormente la mano di Zane mentre alzo gli occhi al soffitto: una reazione del tutto involontaria ma che sembra aiutarmi e darmi incoraggiamento. Dopo qualche secondo tutto sembra finire così come è iniziato.
Respiro profondamente. La polvere mi entra nelle narici e il suo odore pungente sembra graffiarmi le vie nasali fino ad arrivare ai polmoni. L’istinto di tossire è alto, ma non lo faccio. Se avessi dovuto seguire ogni mio singolo istinto sarei già morto da parecchio tempo. Voglio godermi quella strana sensazione.
«Sai Zane, non credo che la rivedrò più.»
«Cosa stai dicendo? Vinceremo questa battaglia. Tornerai da lei e farò in modo di conoscerla.»
«Potremmo vincere la battaglia, ma la guerra l’abbiamo già persa prima che iniziasse. Guarda in faccia la realtà» gli dico alzando leggermente il tono della voce mentre abbasso il viso a terra. Serro i denti e stringo la mano libera in un pugno. «Non doveva succedere! Nulla di tutto questo! Eppure guarda come ci siamo ridotti? E per cosa poi? Per combattere un nemico senza identità che è nato dopo gli eventi a Grand Island! Io… io non la rivedrò più.»
La sua mano lascia la mia spalla e improvvisamente sento un senso di vuoto incolmabile, vorrei afferrargliela e costringerlo nuovamente a poggiarla dove era prima, eppure resto immobile a sopportare quella momentanea solitudine. Lo sento alzarsi per poi inginocchiarsi di fronte a me. Entrambe le sue mani mi afferrano il viso costringendomi ad alzare gli occhi per incrociare il suo sguardo. Mi oppongo applicando la forza necessaria per restare con il volto verso il basso.
«Riley, guardami!» mi ordina Zane.
Non voglio farlo. Non ho intenzione che veda…
«Ti scongiuro, non nascondere le tue lacrime, amico mio. Sei uno dei pochi che ha ancora la forza necessaria per piangere.»
Solo quelle parole sono in grado di sbloccarmi. Alzo gli occhi su quelli verdi di Zane che mi osserva in silenzio. La vista mi si appanna, comincio a vedere molteplici copie dell’uomo che ho di fronte a me, mentre il labbro inferiore comincia a tremare.
“Calmati! Per Dio, calmati!” continuo a ripetermi mentalmente nel contempo in cui avverto un nodo stringersi alla mia gola.
Emetto un singhiozzo sofferente quando mi accorgo che due lacrime scivolano lungo le mie guance. Le mani di Zane mi afferrano nuovamente le spalle; come prima non mi oppongo, ma continuo semplicemente a guardarlo negli occhi, il cui colore sembra sfocarsi.
«Vorrei semplicemente che fosse qui. Lei saprebbe darmi la forza necessaria per andare avanti. Proprio come ha sempre fatto sin dal primo giorno in cui la conobbi. Le sue ultime parole mi rimbombano ancora in testa» dico con voce sussurrata. Gli occhi mi stanno bruciando come due tizzoni ardenti e devo obbligatoriamente battere le palpebre alcune volte per alleviare quel dolore. «Quando ci separammo quattro anni fa. Erano appena iniziati i primi attacchi e per il bene di tutti decisi di affrontare la minaccia, sebbene all’epoca non ne conoscessi la natura. Mi abbracciò e mi disse di non combattere dominato dalla forza dell’odio. All’epoca non capii di cosa parlasse ma adesso…»
«Ehi, non sei obbligato a parlarmene. Lo sai.»
«…sto combattendo una guerra spinto semplicemente da quell’odio dal quale mi aveva messo in guardia. Per i miei compagni caduti. Per il futuro del nostro mondo. Per la loro predominanza numerica. Ogni stralcio di sentimento positivo è stato annullato dal primo momento in cui impugnammo un’arma.»
La lampada appesa al soffitto oscilla a destra e a sinistra provocando quell’effetto disturbante che mi fa cadere maggiormente nello sconforto.
«Perché stai dicendo queste cose?» mi chiede l’uomo che ho di fronte.
Prima che io possa rispondere, una porta in fondo al corridoio viene aperta dall’esterno con un potente calcio. Sull’uscio un uomo sui sessant’anni richiama la nostra attenzione.
«Riley Britt!»
Chiudo gli occhi cercando di alzarmi in piedi.
«Cos… no! Che storia è questa?!» strepita Zane indirizzando l’indice in direzione dell’uomo alla porta.
«Ho sempre impressa l’immagine di lei voltata di spalle, rivolta verso i fornelli mentre prepara la colazione: l’odore delle uova e del bacon che sfrigolano in padella; lo sciroppo d’acero sopra il tavolo accanto ad una torre di pancake. Poi si volta e con la sua espressione sorridente mi da il buongiorno» continuo a parlare rimettendomi in piedi e imbracciando il fucile.
Il mio compagno sgrana gli occhi, la bocca semiaperta mentre osserva alternatamente me e l’uomo alla porta. «Riley no!»
«Mi dispiace, Zane.»
«No!» urla mettendosi tra me e lui. «Non sei ancora pronto!»
Lo scosto con la mano oltrepassandolo per dirigermi verso il mio superiore a braccia conserte. Sento la mano forte stringermi il braccio per bloccarmi.
«Riley, perché?»
«Gli ho ordinato di uscire in superficie poco più di un’ora fa» risponde l’uomo alla porta.
«Krys! Figlio di puttana!» sbraita Zane agitandosi per correre verso di lui e probabilmente ucciderlo con le sue stesse mani.
Lo blocco, osservandolo negli occhi. Scuoto la testa in segno di negazione. Altre lacrime sgorgano dai miei occhi, ma a differenza di prima, le mie labbra abbozzano un sorriso. «Sei un amico Zane. Mi sei sempre stato accanto, non ti ho mai chiesto nulla. Ma adesso ti affido un compito importante.»
Non riesco a placare la sua rabbia, ma sembra essere più ragionevole di quanto pochi istanti prima non fosse.
«Non affidarmi nessun compito. Qualunque cosa tu debba fare… la farai al tuo ritorno.»
«Se mai tu dovessi ritrovarti al Rifugio 617, cercala e dille di perdonarmi per non averle mai dimostrato quanto bene io le volessi. Se davvero mi conosci, non avrai problemi a riconoscerla…»
Le sue braccia mi cingono in un abbraccio, capisco che non vuole lasciarmi andare. Cazzo, non voglio andare io stesso.
«Lo farò. Lo farò Riley, dovesse essere l’ultima cosa che faccio prima di lasciare questo mondo.»
«Grazie» gli sussurro stringendo tra le mani la sua divisa.
«Come si chiama?» mi chiede con tristezza.
«Grace, ma io…» deglutisco e chiudo gli occhi ancora una volta. «Io l’ho sempre chiamata mamma