«Quanti questa
volta?»
La mia voce è
assente, sembra quasi che a parlare non sia una persona ma un automa. Posso
solo immaginare la risposta: è scontata ovviamente. Perché l’ho chiesto quindi?
Per avere un briciolo di speranza? Per convincermi che forse il numero è stato
dimezzato rispetto all’ultima volta?
Forse non
voglio sapere quanti, ma chi.
«Jackt,
Holloway, Baker, Madison, Davies e Willard» risponde l’uomo in piedi accanto a
me.
Il
suo tono è
freddo, senza un briciolo di emozione. Sapeva meglio di me ciò che
volevo: ormai è impossibile non riuscire a capire al volo un proprio
compagno.
Non sposto lo
sguardo dal muro crepato e in parte corroso che ho di fronte. Come potrei? Lì,
in quella parete illuminata dalla fioca luce gialla della lampada che oscilla
dal soffitto, c’è la mia personale bacheca alla quale affiggo le foto dei miei
compagni caduti. Tra le cinquanta già presenti in essa vedo aggiungersi quasi
per magia quelle dei sei appena nominati.
«Fuori piove a
dirotto, il terreno è un ammasso di fango e acqua putrida. Il forte vento copre
ogni forma di rumore… Non sapevano che li stavano aspettando.»
«Mi basti
sapere questo. Voglio ricordarli come degli eroi, non come degli stolti» gli
dico non smettendo di fissare il muro mentre sento l’uomo posare il fucile a
terra, per poi sedersi al mio fianco. Avverto la sua forte mano poggiarsi sulla
mia spalla sinistra nello stesso momento in cui la bacheca immaginaria svanisce
davanti ai miei occhi, facendo riapparire il muro deturpato.
Un conforto.
Ecco cosa vuole trasmettermi con quel gesto, in tempi come questi è tutto ciò
che ci rimane: sapere di aver accanto qualcuno di importante, in grado di alleviare
i problemi e far mutare in dei semplici ostacoli le continue minacce che questa
guerra ci pone.
Appoggio la
mano sulla sua chiudendo gli occhi e abbassando il capo.
Quanti morti
dall’inizio? Quanti amici abbiamo perso? Quante persone che hanno fatto parte
della nostra vita adesso non ci sono più? Ho perso il conto. No, in realtà non
l’ho mai iniziato per non associare dei numeri a delle persone: una conta di
sangue in continua crescita, giorno dopo giorno.
«Ce la faremo»
mi dice l’uomo stringendo la presa sulla mia spalla.
«Hai paura,
Zane?» gli chiedo non aprendo gli occhi.
«Costantemente.
Ma è il pensiero di ciò che potrei perdere a metterla in secondo piano.»
Ciò che
potremmo perdere allevia la paura. Strano, avrei detto il contrario, dato che in
un caso come questo la paura viene accentuata. Non riuscirei mai a placare il
mio terrore se solo pensassi di poter perdere qualcuno a me caro.
Una potente
esplosione proveniente dalla superficie fa vibrare lo stretto cunicolo nel
quale mi trovo. Non alzo gli occhi, non mi faccio prendere dal panico. È una
cosa ormai normale, come le piccole scosse sismiche in una regione vulcanica.
Ciò che potrei
perdere…
Non so chi ci fosse nella precedente vita di Zane, o chi ci sia ancora. Non abbiamo
mai parlato di questo, sappiamo entrambi che il passato è l’arma più pericolosa
di tutte: ci uccide lentamente nella maniera più cruda e violenta. Non possiamo
sfuggirgli, ma non parlarne fa in modo di non accelerare il processo di tortura
psicologica. Velocizza semplicemente il tempo che intercorre tra questo scempio
che ormai ci ostiniamo a chiamare vita e la morte. Ma ormai di tempo ne è
rimasto ben poco e ogni secondo passato qui è semplicemente un numero in meno
nel countdown che si avvicina inesorabilmente verso lo zero.
«Cosa hai da
perdere?» gli domando senza pensare minimamente di togliere la mia mano dalla
sua.
«La mia voglia
di vivere» risponde Zane. «Fin quando ho quella ad alimentarmi so bene che la
paura di non farcela sarà sempre dimezzata.»
Quelle parole
colpiscono la mia psiche quasi fossero delle frecce acuminate, scagliate addosso
ad un manichino che funge da bersaglio.
«E tu? Hai
qualcosa per cui vale la pena restare in vita?»
«Non qualcosa,
ma qualcuno» gli rispondo.
«Senti senti.
Riley ha qualcuno nella sua vita per cui vuole restare vivo. E dimmi un po’…
chi è?»
«Una donna…»
«Ma quante fantastiche
rivelazioni!» dice Zane con entusiasmo mentre mi accorgo che la sua voce
esprime allegria allo stato puro.
Mi domando
come ci riesca. Come può avere sempre quel tono gioioso, quando fuori di qui la
gente non ha ancora capito per quale motivo si combatte ormai da quattro anni?
«Non credevo
avessi una donna. Perché non mi hai mai detto nulla?»
«Perché non lo
ritenevo necessario.»
«E adesso?»
Il mio respiro
regolare tradisce la mia tristezza. Pensare a lei, alla sua bellezza e
all’amore che provavo – e continuo ancora a provare – mi distrugge da dentro. È
un incendio che parte dal mio cuore e lentamente si propaga anche al resto del
corpo. Tengo ancora lo sguardo abbassato.
«Adesso le
carte in tavola sono cambiate.»
«In che
senso?»
Preferisco non
toccare l’argomento. Per quanto male possa fare, credo che restare in silenzio sia la scelta più giusta.
«Avresti
dovuto conoscerla. Credo che ti sarebbe piaciuta all’istante. Tutti coloro che
avevano il piacere di incontrarla mi dicevano quanto io fossi fortunato ad
avere al mio fianco una donna come lei» gli dico con un filo di voce. La mia gola
è secca come un deserto e l’aria che continuo a respirare non agevola per
niente la situazione. «Non so quello che darei per stare ancora un solo secondo
insieme a lei. Non hai idea, Zane. Non hai idea di quanto mi manchino i suoi
abbracci o le sue semplici parole. La sua voce… diamine, se ci penso sembra che
lei sia proprio qui accanto a me, per rincuorarmi di…»
Una seconda
esplosione interrompe le mie parole. L’intero rifugio sembra voglia crollarci
addosso e il pulviscolo che cade dal soffitto sembra approvare la mia ipotesi.
Stringo maggiormente la mano di Zane mentre alzo gli occhi al soffitto: una
reazione del tutto involontaria ma che sembra aiutarmi e darmi incoraggiamento.
Dopo qualche secondo tutto sembra finire così come è iniziato.
Respiro
profondamente. La polvere mi entra nelle narici e il suo odore pungente sembra
graffiarmi le vie nasali fino ad arrivare ai polmoni. L’istinto di tossire è
alto, ma non lo faccio. Se avessi dovuto seguire ogni mio singolo istinto sarei
già morto da parecchio tempo. Voglio godermi quella strana sensazione.
«Sai Zane, non
credo che la rivedrò più.»
«Cosa stai
dicendo? Vinceremo questa battaglia. Tornerai da lei e farò in modo di
conoscerla.»
«Potremmo
vincere la battaglia, ma la guerra l’abbiamo già persa prima che iniziasse.
Guarda in faccia la realtà» gli dico alzando leggermente il tono della voce
mentre abbasso il viso a terra. Serro i denti e stringo la mano libera in un
pugno. «Non doveva succedere! Nulla di tutto questo! Eppure guarda come ci
siamo ridotti? E per cosa poi? Per combattere un nemico senza identità che è
nato dopo gli eventi a Grand Island! Io… io non la rivedrò più.»
La sua mano
lascia la mia spalla e improvvisamente sento un senso di vuoto incolmabile,
vorrei afferrargliela e costringerlo nuovamente a poggiarla dove era prima,
eppure resto immobile a sopportare quella momentanea solitudine. Lo sento
alzarsi per poi inginocchiarsi di fronte a me. Entrambe le sue mani mi
afferrano il viso costringendomi ad alzare gli occhi per incrociare il suo
sguardo. Mi oppongo applicando la forza necessaria per restare con il volto verso il basso.
«Riley,
guardami!» mi ordina Zane.
Non voglio
farlo. Non ho intenzione che veda…
«Ti scongiuro,
non nascondere le tue lacrime, amico mio. Sei uno dei pochi che ha ancora la
forza necessaria per piangere.»
Solo quelle
parole sono in grado di sbloccarmi. Alzo gli occhi su quelli verdi di Zane che
mi osserva in silenzio. La vista mi si appanna, comincio a vedere molteplici
copie dell’uomo che ho di fronte a me, mentre il labbro inferiore comincia a
tremare.
“Calmati! Per
Dio, calmati!” continuo a ripetermi mentalmente nel contempo in cui avverto un
nodo stringersi alla mia gola.
Emetto un
singhiozzo sofferente quando mi accorgo che due lacrime scivolano lungo le mie
guance. Le mani di Zane mi afferrano nuovamente le spalle; come prima non mi
oppongo, ma continuo semplicemente a guardarlo negli occhi, il cui colore
sembra sfocarsi.
«Vorrei
semplicemente che fosse qui. Lei saprebbe darmi la forza necessaria per andare
avanti. Proprio come ha sempre fatto sin dal primo giorno in cui la conobbi. Le
sue ultime parole mi rimbombano ancora in testa» dico con voce sussurrata. Gli
occhi mi stanno bruciando come due tizzoni ardenti e devo obbligatoriamente
battere le palpebre alcune volte per alleviare quel dolore. «Quando ci separammo
quattro anni fa. Erano appena iniziati i primi attacchi e per il bene di tutti
decisi di affrontare la minaccia, sebbene all’epoca non ne conoscessi la
natura. Mi abbracciò e mi disse di non combattere dominato dalla forza
dell’odio. All’epoca non capii di cosa parlasse ma adesso…»
«Ehi, non sei
obbligato a parlarmene. Lo sai.»
«…sto
combattendo una guerra spinto semplicemente da quell’odio dal quale mi aveva
messo in guardia. Per i miei compagni caduti. Per il futuro del nostro mondo.
Per la loro predominanza numerica. Ogni
stralcio di sentimento positivo è stato annullato dal primo momento in cui
impugnammo un’arma.»
La lampada
appesa al soffitto oscilla a destra e a sinistra provocando quell’effetto
disturbante che mi fa cadere maggiormente nello sconforto.
«Perché stai
dicendo queste cose?» mi chiede l’uomo che ho di fronte.
Prima che io
possa rispondere, una porta in fondo al corridoio viene aperta dall’esterno
con un potente calcio. Sull’uscio un uomo sui sessant’anni richiama la nostra
attenzione.
«Riley Britt!»
Chiudo gli
occhi cercando di alzarmi in piedi.
«Cos… no! Che
storia è questa?!» strepita Zane indirizzando l’indice in direzione dell’uomo
alla porta.
«Ho
sempre impressa l’immagine di lei voltata di spalle, rivolta verso i fornelli
mentre prepara la colazione: l’odore delle uova e del bacon che sfrigolano in
padella; lo sciroppo d’acero sopra il tavolo accanto ad una torre di pancake.
Poi si volta e con la sua espressione sorridente mi da il buongiorno» continuo
a parlare rimettendomi in piedi e imbracciando il fucile.
Il mio
compagno sgrana gli occhi, la bocca semiaperta mentre osserva alternatamente me
e l’uomo alla porta. «Riley no!»
«Mi dispiace,
Zane.»
«No!» urla
mettendosi tra me e lui. «Non sei ancora pronto!»
Lo scosto con
la mano oltrepassandolo per dirigermi verso il mio superiore a braccia
conserte. Sento la mano forte stringermi il braccio per bloccarmi.
«Riley,
perché?»
«Gli ho
ordinato di uscire in superficie poco più di un’ora fa» risponde l’uomo alla
porta.
«Krys! Figlio
di puttana!» sbraita Zane agitandosi per correre verso di lui e probabilmente
ucciderlo con le sue stesse mani.
Lo blocco,
osservandolo negli occhi. Scuoto la testa in segno di negazione. Altre lacrime
sgorgano dai miei occhi, ma a differenza di prima, le mie labbra abbozzano un
sorriso. «Sei un amico Zane. Mi sei sempre stato accanto, non ti ho mai chiesto
nulla. Ma adesso ti affido un compito importante.»
Non riesco a
placare la sua rabbia, ma sembra essere più ragionevole di quanto pochi istanti
prima non fosse.
«Non affidarmi
nessun compito. Qualunque cosa tu debba fare… la farai al tuo ritorno.»
«Se mai tu dovessi
ritrovarti al Rifugio 617, cercala e dille di perdonarmi per non averle mai
dimostrato quanto bene io le volessi. Se davvero mi conosci, non avrai problemi
a riconoscerla…»
Le sue braccia
mi cingono in un abbraccio, capisco che non vuole lasciarmi andare. Cazzo, non
voglio andare io stesso.
«Lo farò. Lo
farò Riley, dovesse essere l’ultima cosa che faccio prima di lasciare questo
mondo.»
«Grazie» gli
sussurro stringendo tra le mani la sua divisa.
«Come si
chiama?» mi chiede con tristezza.
«Grace, ma
io…» deglutisco e chiudo gli occhi ancora una volta. «Io l’ho sempre chiamata mamma.»