giovedì 10 gennaio 2013

Non voglio perderti


«Stai bene?»
La mia voce mi trae in inganno, e per un attimo ho creduto che quella non fosse una domanda, ma un vera affermazione. I miei occhi, stanchi e arrossati, osservano la ragazza seduta di fronte a me. Batto le palpebre lentamente con la speranza che quei due globi infuocati che al momento ho al posto degli occhi possano spegnersi per almeno qualche secondo. Non funziona, quando le riapro sembrano più incandescenti di prima.
Massaggio la tempia destra, le pulsazioni che avverto all’interno della mia testa sono tremende e a stento riesco a non lamentarmene. Non ho idea di cosa si provi a farsi versare una colata di lava bollente all’interno del cranio, ma credo che la sensazione sia pressappoco la medesima. Il respiro affaticato dall’elevata quantità di polvere presente nell’aria non agevola per nulla la situazione.
È proprio in quel momento che il mio udito capta un rumore estraneo al silenzio che regna sovrano.
Osservo la mia compagna di viaggio e ciò che leggo nei suoi occhi è puro panico: la sua voglia disperata di alzarsi e scappare in un luogo ancora più sicuro, nonostante sappia che non possa raggiungerlo in tempo. Ciò che però riesce a sorprendermi è la bravura con la quale riesce a mascherare il tutto, credo che chiunque la vedesse non noterebbe altro che un’innaturale calma. Tipico di chiunque non voglia far trasparire alcuna emozione. Sono tuttavia abituato a quelle finzioni: quegli occhi che in un tempo ormai lontano paragonavo a quelli di un cerbiatto impaurito, possono trarre in inganno chiunque, ma non il sottoscritto. La conosco fin troppo bene e oramai conosco ogni singola sfumatura del suo carattere, compresa quella finta indifferenza.
Come un tuono, il cui fragore maestoso viene preceduto da una scarica elettrica gracchiante, l’imminente passaggio del caccia bombardiere di ronda viene annunciato da un sibilo acuto che riesce a penetrare fin dentro la scatola cranica, insinuandosi nel cervello come la lunga nota vibrante di un enorme diapason. E infine eccolo: arriva a grande velocità, passando sopra la stazione di rifornimento abbandonata della vecchia interstatale che un tempo conduceva a Wellington; il rombo è talmente forte da far tremare le pareti stesse.
Alzo lo sguardo verso il soffitto in cui i neon, ormai morti da tempo, oscillano con un moto ipnotico. Un solo pensiero passa per la mia mente: spero che l’intero edificio non ci crolli addosso.
Dopo qualche istante l’assordante rumore svanisce, dalla parte opposta da cui era giunto.
È sempre così, da tempo ormai siamo abituati a tutto questo. Si fa in tempo a portare gli occhi al cielo, che sono già schizzati via tra le nuvole.
Non sappiamo ancora da dove partano, ed è ancora un’incognita la loro principale destinazione. Certamente il loro principale obbiettivo è quello di eliminare la minaccia che ci sovrasta dall’inizio di questa guerra senza fine.
Posso ritenermi fortunato a sapere cosa stia succedendo: in tanti sono tutt’ora all’oscuro del reale motivo per cui il mondo, come lo conoscevamo prima, sia cambiato drasticamente. Sopravvivere alla totale distruzione della propria città e riuscire a raccontarlo, non è una cosa che capita a tutti; non essere al corrente delle cause, dopo ciò che è successo, equivarrebbe ad aver avuto una benda davanti agli occhi durante tutta la durata della demolizione di Gore. Quasi ogni notte il mio subconscio ripercorre i momenti di quei giorni: fiamme, urla, demolizioni, quarantene, sangue e morte.
Il primo attacco fu quello più inaspettato e terrificante. Non riuscii a capire cosa stesse succedendo, ma ricordo che avvenne dopo cena. Tra il panico dei cittadini, le improvvise esplosioni e i boati terrificanti, scesi in strada e cominciai a correre come se non avessi mai fatto altro in vita mia. Il fiato corto e il sudore che scivolava dalla mia fronte, facendo sì che la maglietta aderisse al mio corpo, è ciò che ricordo maggiormente di quel momento. Due esplosioni dietro di me mi fecero ruzzolare, mentre detriti e frammenti di automobili piovevano dal cielo come piccole meteore. Assaporai il gusto metallico del sangue, e mi resi conto di quanto dolore potesse provocare una scheggia ferrosa di una lamiera infilzata alla coscia. La estrassi senza pensare a quali potessero essere le conseguenze: tutto ciò che volevo era correre e mettermi al riparo. L’urlo di dolore che quel pezzo di metallo fu in grado di far emergere dalla mia bocca, venne sovrastato da un’ulteriore esplosione proveniente dal lato opposto della strada. Disteso a terra e la gamba sanguinante, usai gli avambracci come scudo nella speranza che nulla potesse colpirmi. Dio solo sa quanto quella speranza fu vana: uno pneumatico, precipitato dall’alto, mi prese in pieno battendo contro la mia testa. Avvertii solo un forte e acuto dolore, la vista mi si appannò e i suoni stessi divennero confusi, sovrapponendosi gli uni con gli altri fin quando non si affievolirono del tutto nell’esatto momento in cui persi i sensi. Non so di preciso per quanto tempo rimasi in stato di incoscienza, ma al mio risveglio era ormai mattina inoltrata.
Giorni di agonia furono quelli che seguirono il primo attacco, non solo per la ferita alla coscia che feci medicare da chi di competenza, ma per ciò che mi si presentò davanti agli occhi osservando la mia città devastata: un incubo fuoriuscito dalla mente di un dormiente per insediarsi e mettere radici nel mondo reale.
Dopo una settimana avvenne il secondo attacco, e fu allora che li vidi. Giuro che in un primo momento avrei preferito morire anziché osservarli; gli occhi stessi si rifiutavano di scostarsi da quelle aberranti sagome, che ancora adesso mi spaventano come l’uomo nero terrorizza i bambini.
“Da dove provengono?” è la domanda principale che la maggior parte delle persone si è posta. Varie supposizioni sono nate in merito: i paranoici suppongono che loro siano il risultato di qualche esperimento andato storto, un’anomalia del tutto inaspettata da parte della B&Q Indutries; altri sostengono che siano delle nuove armi batteriologiche comandate da uomini senza scrupoli.
Io stesso non so a cosa pensare, sopravvivere ad essi è il mio unico obbiettivo e le loro origini non sono un argomento di particolare rilevanza ai fini della mia salvezza. L’unica cosa di cui sono sicuro è che sono vivo per miracolo, anche se non so se effettivamente sia da considerarsi un bene. Così come sono certo che la mia città, la mia Gore, è ridotta ormai ad un ammasso di macerie. Ad anni di distanza non riesco ancora a farmene una ragione, e con molta probabilità non riuscirò mai a trovarne una.
Tutti coloro ai quali tenevo non ci sono più: colleghi, amici, familiari. Sto cercando di andare avanti, sto cercando di sopravvivere, lasciandomi alle spalle ciò che è stato. Il passato è una brutta belva; è un figlio di puttana sempre pronto ad attenderti dietro l’angolo con un coltello in mano da piantare nel tuo petto. Ti fa soffrire, ricordandoti ciò che hai dimenticato. Che hai voluto dimenticare.
Tuttavia posso ritenermi fortunato dato che il passato può solo passare avanti una volta giunto di fronte a me. Io non posso dimenticare, non tutto almeno. Non mi è concesso perché ho lei da proteggere: la stessa ragazza che adesso è seduta a poca distanza da me. Vedere lei equivale a rivedere la mia intera famiglia, e so con certezza che lo stesso vale per lei.
Le lacrime versate per le nostre perdite sono ormai finite, e non nego che il più delle volte riusciamo a concederci qualche risata. I momenti di svago sono però minimi, quasi nulli, e stanno andando lentamente a svanire man mano che i giorni avanzano.
«Hai freddo?» le domando.
Non mi risponde. La sua schiena è poggiata al muro, la gamba destra è distesa lungo il pavimento ricoperto da detriti e calcinacci, mentre l’altra è portata al petto; le suole dei suoi stivali riportano i segni dei chilometri macinati per raggiungere quell’attuale rifugio; la mano sinistra è poggiata sul fodero del pugnale, legato saldamente ad una cinghia stretta alla coscia; accanto a lei, lo zaino dentro cui ci sono le nostre scarse provviste che basteranno per due settimane al massimo.  
«Hai freddo?» ripeto.
«Non credo ci sia bisogno di risponderti» dice lei, voltandosi con fare infastidito.
Mi rendo conto che dal giorno dell’incidente al campus, il nostro legame sembra essersi affievolito giorno dopo giorno. Chiunque ci vedesse, ci scambierebbe per due totali estranei.
Molte volte osservandola, proprio come in quel momento, mi accorgo di quanto sia cambiata nel corso degli anni: i suoi lunghi capelli castani e lisci le ricadono sul volto, coprendolo parzialmente; il corpo definito di una ventitreenne; la carnagione scura che mette in risalto quei profondi occhi marroni. Sono certo che se gli eventi degli ultimi anni non avessero avuto inizio, lei avrebbe avuto una fila interminabile di pretendenti, pronti a sfidarsi in una lotta all’ultimo sangue per poterle solo stringere la mano.
Abbozzo un sorriso, per poi scuotere la testa lentamente. Orgogliosa come sempre, un comportamento che ha adottato dal momento in cui abbiamo preso consapevolezza di dover contare solo sulle nostre forze per poter sopravvivere.
“Gli aiuti servono molto” le dissi una volta, quando trovammo rifugio nelle gallerie della metropolitana di Alexandra. “Ma molti aiuti non servono a niente.”
Da allora, quasi fosse stata una sorta di malia, il suo voler sempre contare sul prossimo svanì nel nulla. Da quel giorno, cominciò a voler badare a se stessa senza alcun misero sostegno. So che preferirebbe morire piuttosto che chiedere aiuto a qualcuno, e ciò non può far altro che scindere in due il mio animo: da una parte mi rende orgoglioso di lei, ma al tempo stesso ne sento il peso dentro il petto. Non potrei mai permettere nulla del genere, non riuscirei a restare con le mani in mano mentre lei risolve i suoi problemi da sola, combattendo contro la morte stessa.  
Tolgo il giubbotto, facendo attenzione che la spalla sinistra non venga lussata nuovamente. Un banale movimento sbagliato e il dolore sarebbe immane. Dopo una rimessa a posto alla bell’e meglio, è il minimo che possa succedere.
«Tieni» le dico tendendo il braccio destro per porgerle l’indumento. «Hai i brividi, stai tremando.»
«Sto bene.»
«Anche se così fosse, prendilo.»
«Ne hai più bisogno tu.»
«Ciò di cui ho bisogno è che tu possa riscaldarti» affermo scuotendo la mano nella quale stringo il giubbotto, per incitarla ad afferrarlo.
Finalmente si volta verso di me, le sopracciglia aggrottate e lo sguardo seccato. Non parla, ma rivolgendomi quell’espressione ho come l’impressione che l’abbia fatto. In quel momento mi sta odiando, con tutto il suo essere; sa che ha bisogno di me quanto io ne ho di lei, ma non riuscirebbe ad ammetterlo. Né a me, tantomeno a se stessa.
«Solo per questa volta» mi dice, agguantando una manica del giubbotto. «Ti restituirò il favore.»
«Non devi restituirmi niente» affermo, ritirando l’arto.
Appoggio la mano delicatamente sul braccio sinistro, all’altezza del bicipite. Me ne pento dopo un istante: una fitta di dolore esplode come un vulcano quiescente al momento del suo maestoso risveglio. Non posso far altro che stringere gli occhi e i denti, abbassando il capo mentre trattengo un verso di agonia.
«Dannata spalla del cazzo!» sbraito aumentando il tono della voce. «Quando passerà?»
«Se continuerai a toccarla, puoi star certo che la risposta sarà mai» afferma la ragazza con voce tranquilla, quasi che non sia per niente preoccupata dal fatto che il dolore si sia impossessato di me. «Non sappiamo quando riusciremo a trovare un centro medico ancora intatto, con qualcuno realmente capace di rimetterti in sesto.»
Quando rialzo lo sguardo verso di lei, noto che un sorriso beffardo è stampato sul suo volto. Scuote la testa mentre indossa il giubbotto che le ho dato, tirando poi su la cerniera.
«Cosa c’è?» le chiedo.
Il suo sorriso si allarga sempre di più, rendendolo più sbeffeggiatore di quanto non lo fosse già. «Nulla.»
«Nulla?»
«Nulla» ripete. «Semplicemente mi sorprende il fatto che tu abbia trentasei anni, e queste cose debba dirtele io.»
«Oh» sussurro per poi schiarirmi la gola. «È arrivata la sapientona della situazione. Colei senza la quale potrei vivere in questo mondo.»
«Esattamente» dice lei con soddisfazione.
«Ti ricordo, mia cara, che ti ho salvato il culo da più di una brutta situazione. Sei tu quella che non sopravvivrebbe un solo giorno se non ci fossi io» la informo, notando la sfacciataggine nel suo viso. Il lento movimento della sua testa che annuisce ad ogni mia parola e la sua faccia strafottente, accende in me quei risentimenti che ho tenuto soppressi troppo a lungo. Le mie parole escono dalla bocca come il flusso di un fiume, trattenuto da tempo a causa di una diga che è stata appena distrutta. «Cosa credi che ti sarebbe successo quando loro hanno attaccato il campus? Riesci ad immaginare che fine avresti fatto se non ti avessi presa per mano, costringendoti a correre? Ti credi sveglia, eppure se non vado errando tu sei stata la causa che ha portato alla rovina il gruppo al quale ci eravamo uniti.»
«È stato un errore. Tutt’ora non…»
«Un errore dici? Sai quale è il compito di una sentinella?»
Non risponde. Il sorriso beffardo sembra essere sparito, proprio come desideravo.
«Un’irresponsabile, ecco quello che sei. Avresti notato subito la minaccia che ci ha quasi portato alla morte, e che ha condannato altre dieci persone. Se solo tu non fossi stata tanto occupata ad andare dietro a come diavolo si chiamava, a quest’ora…»
Dominata dall’ira, la vedo scattare verso di me, senza darmi occasione di scostarmi o di concludere il discorso. Una mano fa pressione sul mio petto costringendomi a restare appoggiato alla parete, l’altra impugna il pugnale la cui fredda lama mi graffia la guancia. A pochi centimetri dal mio volto, lei digrigna puntando contro i miei occhi castani i suoi ricchi di odio.
Mi rendo conto che a causa di un riflesso incondizionato, la mia mano stringe il calcio della Glock estratta dalla fondina, premendola contro il suo addome. «Io abbasserei l’arma se fossi in te.»
«Si chiamava Warren!» mi urla contro. «L’unica persona che in tutti questi anni mi ha dato dimostrazione di tenere realmente a me!»
Quelle parole mi feriscono, come se quel pugnale avesse trafitto il mio cuore molteplici volte. Come può dirmi una cosa del genere? «Non era un valido motivo per condannare tutti a morte.»
«È stato un errore! Un fottuto errore!»
«Gli errori non sono ammessi, Eli!» grido mantenendo fisso lo sguardo sul suo. «Gli errori ti costano la vita! Non si è trattata della nostra per puro miracolo!»
Le mie parole sembrano avere l’effetto desiderato: non osa controbattere. D’altronde cosa avrebbe da ridire? Sento la sua mano tremare, la lama del pugnale mi solletica pericolosamente il viso.  
«Con un solo errore, le mie mani si sono sporcate di sangue innocente. Ne basterebbe solo un altro per ucciderci entrambi. Non possiamo permetterlo, mi capisci?» le domando. «Non posso permettere che io ti perda per colpa un maledettissimo errore!»
La lama viene allontanata dal mio viso. La osservo ancora, fin quando i suoi occhi non si distaccano dai miei. Li abbassa verso il fodero dentro cui ripone il pugnale. Indietreggia di qualche passo prima di sbattere la schiena contro il muro, accasciandosi poi al suolo e portando entrambe le ginocchia al petto. Nella mia mano la pistola è ancora puntata verso il nulla.
Cosa siamo diventati? Questa è la domanda che mi frulla in testa. Anni addietro non sarei riuscito neanche a pensare di ritrovarmi una lama puntata da parte sua, tantomeno che io arrivassi a premerle contro la canna di un’arma da fuoco.
«Perdonami» le dico con un filo di voce, riponendo la Glock nella fondina.
Lei scuote la testa, facendomi capire di non dovermi preoccupare.
Attimi di silenzio piombano in quel luogo. Attimi che si tramutano in secondi, e successivamente in minuti. È imbarazzante: nessuno dei due sa di preciso cosa dire per rompere quel muro che si è venuto a creare tra di noi.
“Il silenzio è d’oro” dicono, ma quando passi troppo tempo in solitudine e grazie al cielo ti è stata data la possibilità di avere qualcuno accanto, l’oro di cui è composto il silenzio si tramuta in merda. Che se lo goda chi ha ancora voglia di farlo.
Estraggo dal taschino un pacchetto di chewing gum, porgendolo verso di lei. «Ehi, vuoi?»
I suoi occhi si illuminano di stupore, distende le labbra in un sorriso incredulo, come se fosse ammaliata da ciò che le sto mostrando. «Oddio, non ci credo!» dice entusiasta.
Sorrido di gusto. Vederla gioire per una banalità come quella è un toccasana per il mio spirito.
«Dove le hai prese queste?» mi domanda, il sorriso ancora stampato sul volto che sembra farla tornare bambina.
«Dando un’occhiata in giro per gli scaffali mentre riposavi» la informo. «Non ho saputo resistere.»
Sembra quasi impossibile credere che fino a pochi minuti prima le nostre vite siano state minacciate l’una dall’altra. Quella gioia sembra aver cancellato l’attimo buio di poco fa, come se non fosse esistito. Probabilmente è meglio così: non sarei riuscito a convivere con il peso di aver puntato la canna di una pistola contro di lei.
Quel momentaneo attimo di felicità è qualcosa di magnifico. Vorrei che il tempo potesse bloccarsi, per poter vivere in eterno quel singolo istante e dimenticarmi una volta per tutte della nostra sopravvivenza. Ciò che voglio… ciò che vogliamo è vivere, non sopravvivere.
«Non masticavo una Gibsy Bum da una vita. Non ricordo neanche quando fu l’ultima volta che vidi una» dice lei scartando il chewing gum e portarlo alla bocca. Chiude gli occhi e si lascia sfuggire un verso di piacere. «Anguria e lime. Le mie preferite.»
«Ho avuto fortuna allora, era l’unico pacchetto rimasto» le dico riponendolo nel taschino della felpa. «Spero possa durare abbastanza a lungo da…»
«Quando riprenderemo a muoverci?» mi chiede interrompendomi. Quelle parole sono in grado di tagliare in due l’atmosfera magica e serena venutasi a creare, come un’enorme ascia insanguinata e arrugginita di un boia.  
«Tra qualche giorno. Siamo ancora troppo stanchi e spossati per poter ricominciare il viaggio. Inoltre si sta avvicinando un temporale, ho visto dei nuvoloni neri a Nord. Procedere con quelle condizioni climatiche è un suicidio» rispondo grattandomi il capo. «Credo che stare qui sia la soluzione migliore.»
«Ma potremmo trovare un rifugio migliore.»
«Chissà quante miglia dovremmo percorrere prima di trovarne uno. Sperando che sia vuoto, tra le altre cose.»
«E se dovessero…»
«Senti, non ho intenzione di vivere questi momenti di pace con un senso di perenne ansia. Il solo pensiero che possano piombare qui dentro mentre siamo indifesi mi terrorizza, ma noi non possiamo continuare a vivere nel terrore. Sarebbe l’inizio della fine.»
Lei sorride, bonariamente questa volta, mentre mastica la gomma che le ho appena offerto.
«Inganneremo il tempo in qualche modo» le faccio sapere. «Non toccheremo le provviste, comunque. Ho visto che tra gli scaffali ci sono molte confezioni di carne secca. Ti piace la carne secca, vero?»
«Non ci vado pazza, ma se non c’è altro…» si blocca quando nota che la sto osservando con severità, allorché scoppia a ridere divertita. «Suvvia, sto scherzando. Non mi creo alcun problema, te lo assicuro.»
Ridacchio anche io, quando il fragore di un tuono lontano mi porta a tacere. Credo che entrambi abbiamo capito che, volenti o nolenti, non potremo più uscire da lì fin quando la tempesta non sarà passata del tutto. «Ok, siamo ufficialmente bloccati qui.»
«Magari avessimo una consolle con cui divertirci» afferma lei sorridendo. «Come facevamo molto tempo fa. Ricordo ancora quando tu giocavi e io guardavo stupita la partita, come se stessi osservando un film interattivo. Saranno passati più di dieci anni.»
«A me sembra passato un secolo» le dico, abbassando lo sguardo. Ripensare a tutto ciò che ho perso da allora mi riempie il cuore di angoscia. Quando avverto la suola dei suoi stivali colpirmi leggermente alla gamba, rialzo lo sguardo rendendomi conto che il sorriso non è sparito dal suo viso.
«Io sono contenta di custodire nella mente e nel cuore quei ricordi. Mi fanno rendere conto di quanto io sia fortunata ad averti ancora accanto. Anche se il 90% delle volte odio il tuo carattere autoritario.»
«Se mi comporto così…»
«‘È solo per te’. Bla bla bla. Lo so già, me l’avrai ripetuto fino alla nausea. Ma non è una predica quella che voglio farti. Ciò che voglio farti capire è che…» si interrompe senza riuscire a dire altro.
Sorrido, scuotendo la testa. Non solo orgogliosa, ma anche restia a manifestare i propri sentimenti. Proprio tale e quale a questo idiota che poco prima le ha puntato contro una pistola.
«Anche io ti voglio bene. Più di quanto tu possa immaginare» le dico. «E a tal proposito, dentro la tasca interna del giubbotto c’è un regalo per te. Non so se l’undici Settembre sia passato da qualche giorno o da qualche mese; da quando non teniamo più il conteggio dei giorni, direi che è impossibile stabilirlo. Però tenevo a fartelo avere quando sarebbe stato il momento giusto.»
Senza pensarci due volte, la vedo controllare la tasca interna del giubbotto con la mano. Da essa fuoriesce una catenina con un pendente: un cristallo sfaccettato e dalla forma irregolare. Il suo colore viola sembra risplendere dall’interno, ma la particolarità di quel ciondolo sta nell’essere avvolto da sottilissimi cavi elettrici che lo rendono più accattivante.
«È… è fantastico» sussurra afferrando la catenina e facendo penzolare il cristallo davanti ai suoi occhi. «Non credo di aver mai visto nulla del genere.»
«Lieto che ti sia piaciuto» le dico avanzando a gattoni verso di lei per aiutarla ad indossare il nuovo regalo. «Non perderla, mi raccomando.» 
«Non lo farò, te lo prometto» afferma lei non smettendo di osservare il ciondolo. «Grazie… zio.»