giovedì 16 maggio 2013

News Flash


Come dice il titolo: notizie veloci veloci.
Poco tempo fa avevo accennato ad una collaborazione con la nuova realtà editoriale "La Mela Avvelentata" la quale aveva accettato di pubblicare il racconto breve "Giorno Uno", che trovate online nel loro sito. Avevo già parlato della disponibilità e della serietà dello staff che componeva questo nuovo editore digitale. Ma avevo accennato anche ad un altro contributo che avevo dato per una nuova iniziativa indetta dal suddetto editore.
Ebbene, l'iniziativa consisteva in un'antologia di racconti brevi. 50 racconti di fantascienza; 50 diversi scrittori emergenti e non.Ogni racconto è stato selezionato dal curatore Alexia Bianchini. Il titolo è un vero e proprio richiamo ironico al successo editoriale delle 50 sfumature di grigio, nero, rosso, viola, fucsia, lilla, blu elettrico e giallo canarino.

50 Sfumature di Sci-Fi ed è in uscita in formato e-book e cartaceo il 28 Maggio 2013.
E' con non poca emozione che posso dire di far parte dei 50 selezionati. Il racconto in questione si intitolerà "Flyway 617".
Ho inoltre notato che tra i selezionati c'è anche Francesco Troccoli, che ho avuto il piacere di conoscere e con cui ho collaborato al podcast "La Porta Segreta".

Qui di seguito la lista dei racconti selezionati:

1. Cantico del guerriero eterno – Daniele Picciuti
2. È solo l’inizio - Viola Lodato
3. Una famiglia perfetta – Emanuele Delmiglio
4. Chouma-Fly - Dario Tonani
5. Speranza - Anna Grieco
6. Tartan - Stefano Pastor
7. Symlife – Giovanni Stoto
8. NeoLife Enterprise – Lorenzo Crescentini
9. Dodici minuti - Livin Derevel
10. Una questione di memoria - Alain Voudì
11. L’Ufficio Richieste - Marta Leandra Mandelli
12. Tempus fugit - Francesco Troccoli
13. Fuoco amico - Claudio Cordella
14. G.D.O. - Simone Messer
15. La Soglia – Serena Barbacetto
16. Adatto – Maico Morellini
17. Il Sentiero della Spirale - Sandro Battisti
18. Recupero Intergalattico – Ambra Fraccaro
19. Flyway 617 - Aaron Leonardi
20. Sganciamenti - Chiara Perseghin
21. Lenora - Rigoni Fiorella
22. Il dibattito - Andrea Santucci
23. La preghiera della sera - Francesca Rossi
24. Galassia Magellano - Elvio Ravasio
25. Secondo avvento - Luigi Milani
26. Infinity - Federica Gnomo
27. Cacciatori di Draghi - Enrico Nebbioso Martini
28. Il bastoncino più corto - Fabrizio Fortino
29. Galassia madre – Marco Milani
30. LUI & LEI - Claudia Graziani
31. Gamma pavonis – Ivan Berdini
32. Virus – Donatella Perullo
33. Piloti di Meteor – Vittorio Della Rossa
34. Flush – Francesco Verso
35. Mutangenesi – Alexia Bianchini
36. Nella luce – Luca Romanello
37. Per un pugno di sogni – Stefano Sacchini
38. Il pianeta bianco - Luca Fadda
39. Rompicapo – Daniela Barisone
40. Il tempo che verrà - Francesca Montomoli
41. Cambi d’Abito – Alessandro Forlani
42. Ma che bontà - Luciana Ortu
43. Illuminante buio – Fabio Bottinellù
44. Consapevolezza – Paola Boni
45. Me-book - Raffaele Fumo
46. Technofollia - Valerio Marcello Pelligra
47. Happy Days – Raffaele Serafini
48. Finalmente umano – Pellegrino Dormiente
49. Verso la luce – Maria De Riggi
50. Terra – Hush

mercoledì 3 aprile 2013

Breaking News




Buongiorno gente.
Spero abbiate passato delle ottime feste e che vi siate sgorgolati almeno due uova di Pasqua (preferibilmente Kinder). 
Io tutto sommato non posso lamentarmi, passate in buona compagnia familiare. Niente uova per il sottoscritto che da mesi evita di mangiare roba dolce per non rischiare di riprendere i chili già persi, al massimo un pezzo di colomba (assolutamente senza canditi).
In fin dei conti mi sono anche rilassato prendendo un giorno e mezzo di riposo dal lavoro.

E adesso rieccomi qua, dietro il bancone a scrivere queste piccole news, tanto per tenere aggiornato chiunque voglia mettere piede qui dentro. Per sbaglio o di propria volontà, a me non fa differenza.


Project Sun
A poco più di tre o quattro capitoli dalla fine di ciò che io considero il "primo libro" e che Valeria Romanazzi considera il "primo numero", la stesura di Project Sun è stata interrotta a tempo indeterminato.
La causa più grande la si può leggere nel post precedente, ultimamente non ho proprio la testa di continuare quella storia, senza contare inoltre che quest'anno non ci sarà alcun N°2 a Lucca Comics (per dirla tutta non penso ci sarà neanche lo stand Tenaga Comics, ma anche se ci fosse Project Sun non farebbe parte della lista degli albi nuovi in uscita). Decisione presa in quanto non si ha più intenzione di presentarlo come autoproduzione, senza contare che la disegnatrice non era del tutto soddisfatta del risultato avuto con il N°1. Troppa roba era stata tagliata dalla versione scritta; molte cose erano state modificate o riadattate affinchè potesse entrare tutto in una sessantina di pagine di fumetto; pochissimo era stato il tempo a disposizione per dedicarsi in tutto e per tutto alla realizzazione grafica e allo spam generale (la pagina di Facebook, ancora oggi, conta appena 170 Like e l'ultimo vero aggiornamento risale a Dicembre del 2012). Diciamoci la verità, eravamo partiti sparati a mille per questo progetto, prevedendo anche un buon spam virale con tanto di enigmi da risolvere per ricevere news sostanziose, mandate per e-mail a coloro che decidevano di appoggiare la Ribellione iscrivendosi al sito ufficiale... ma alla fin fine si è riusciti a fare poco più di un decimo di tutto ciò che avevamo in mente di fare. Vuoi un po' per il mio lavoro, vuoi un po' per il lavoro di Valeria, vuoi un po' per il tempo ridotto al minimo, Project Sun non ha proprio fatto il BOOM che io mi aspettavo. Certo, è stata una novità per me e il "nuovo arrivato" tra le produzioni della fumettista e l'interesse c'è stato da parte degli acquirenti, ma ci aspettavamo qualcosa di diverso. Io mi aspettavo qualcosa di diverso. Tutt'ora, a sei mesi di distanza dall'uscita dell'albo non ho ricevuto una sola opinione da parte dei lettori (ad eccezione degli amici, ovviamente), proprio per sapere se è piaciuto o se non è piaciuto, se era il caso di sistemare ciò che non andava bene o sapere se i personaggi sono ben caratterizzati o no. Nada de nada.  
Quindi niente più autoproduzione per Project Sun. Si ricomincia da zero per presentarlo a qualche editore, molta roba verrà ridisegnata completamente e con più cura nei dettagli, altre cose verranno aggiunte per rendere l'albo nuovo il più fedele possibile alla storia che io ho scritto. Contando pure che l'albo definitivo comprenderà anche quello che sarebbe dovuto essere il N°2 (la cui storia scritta è almeno il doppio di quella del N°1) passerà davvero tanto tempo prima che possiate tenere tra le mani nuovamente il fumetto di Project Sun. Anni probabilmente. Motivo per cui adesso non rappresenta più una mia priorità come lo era prima, e anche se avevo in mente di tentare una pubblicazione della versione "romanzata" per adesso è meglio lasciare questa storia da parte per un po' di tempo. 


Nuovi Progetti
Per ogni porta che si chiude si apre un portone, giusto?
Nonostante Project Sun sia stato accantonato a tempo da decidere, c'è qualcosa di nuovo che bolle in pentola.
Molti dei miei scritti sono nati da avvenimenti spiacevoli. L'Ira ad esempio è nata quando quella che credevo una mia cara amica aveva deciso di lasciare la città senza sapere se sarebbe ritornata, ero talmente arrabbiato e frustrato che da quei sentimenti che provavo nacque ciò che tutt'ora reputo la storia più importante che io abbia mai concepito e scritto.
Stessa cosa è avvenuta per questo nuovo progetto di cui ancora non svelerò né trama né titolo. Dico solo che tutta la storia è nata in poco più di qualche giorno, e come successo per l'Ira, durante un periodo in cui una mia cara amica è venuta a mancarmi. Non per niente lo dedicherò esclusivamente a lei quando lo finirò.


Giorno Uno edito La Mela Avvelenata
Non so se vi ricordate Giorno Uno, il racconto breve che era stato selezionato per entrare a far parte del podcast "La Porta Segreta" e letto dal bravissimo Francesco Troccoli (autore di Ferro Sette, uno stupendo libro di fantascienza). Beh, con enorme dispiacere il podcast ha chiuso i battenti lo scorso Ottobre e di conseguenza i diritti editoriali sono cessati.
Qualche mese più tardi, a Gennaio, sono venuto a conoscenza de La Mela Avvelenata, un nuovissimo editore digitale che si presenta al pubblico ammettendo di avere uno staff tutto al femminile. Con grande sorpresa ho appreso la notizia che sono interessati anche a racconti brevi proprio come Giorno Uno, pubblicandoli a titolo gratuito per farsi conoscere come editori ma anche per far conoscere gli autori.
"Bene" ho pensato. "Proviamoci".
Ho inviato il racconto e qualche giorno dopo mi è arrivata la notizia che è stato scelto per la pubblicazione. Ovviamente potete immaginare la mia felicità, pari a quella provata quando ricevetti altre notizie positive inerenti ad altri piccoli successi. 
Non nego che mi sono trovato bene, che lo staff (davvero tutto al femminile) è cortese e sempre disposto a chiarire ogni dubbio, sebbene io mi ponga sempre il limite di domandare qualcosa per non apparire troppo invadente. 
La qualità dei loro testi è molto buona e ho già letto alcuni racconti gratuiti che mi hanno colpito molto (Il Muro di Pellegrino Dormiente ne è un esempio). Sono davvero soddisfatto di aver collaborato con loro grazie a Giorno Uno. Inoltre credo di aver dato il mio contributo anche per un'altra iniziativa indetta dalla suddetta casa editrice... ma non ne sono certo in quanto non sono sicuro nemmeno io se questo contributo è stato preso in considerazione o no.
Di certo sarò io a prendere in considerazione loro quando deciderò di pubblicare quel lavoro di cui ho parlato nel punto due. Chissà che non veda la luce grazie a questo nuovo editore.
Per il resto bisognerà solo avere pazienza.


Muses 2
Uhuhu, sì. Proprio il seguito del famoso Muses di cui ho tanto parlato nei mesi scorsi, partorito dalla mente di Francesco Falconi. Proprio quel libro per cui era stato indetto il contest NetFace di cui ho parlato abbondantemente (riportando anche qui il racconto con cui avevo partecipato). Proprio il romanzo che avevo vinto grazie al booktrailer che avevo creato prima dell'uscita, e che in realtà non c'entrava una mazza con la storia. 
Dove voglio andare a parare? Sono riuscito a vincere una copia del diretto seguito, rispondendo velocemente ad una semplicissima domanda: giorno, mese e anno della protagonista. 
Contando il fatto che il giorno e il mese coincide esattamente con quelli in cui sono nato io, direi che non ho faticato molto a ricordarli. L'anno era incerto, ma alla fine ho ricordato anche quello, fortunatamente.
Ammetto quindi di essere curioso oltre ogni limite riguardo le vicende di questo seguito, che uscirà nel mese di Maggio. Come ho detto prima, bisognerà solo avere pazienza fino alla data di uscita. 


Beh credo che non ci sia più nulla. O forse ci sono altre mille cose ma la mia mente le ha messe da parte e chissà quando le ricorderò :D
Grazie per l'attenzione.

giovedì 7 marzo 2013

La nostra avventura





Vederti crescere è stata forse la cosa più bella che mi sia capitata in tutta la mia vita. 
Passare ogni singolo giorno con te è stato il regalo più bello che qualunque entità divina ci sia lì sopra abbia potuto farmi.
Il tuo affetto, che riuscivi a dimostrarmi ogni qualvolta io ti vedessi, era impareggiabile… forse in tutto questo tempo non ho mai saputo eguagliarlo con quello che io dimostravo a te. Mi davi tanto, più del dovuto, mentre io riuscivo a darti solo ciò che potevo, ed è questo ciò che adesso mi rode dentro.
Quando non ero in vena, quando avevo problemi o semplicemente volevo stare da solo, tu eri lì, sull’uscio della mia stanza. Capivi subito cosa avessi ed eri sempre pronta a tirarmi su il morale nell’unico modo che tu conoscessi: dimostrandomi affetto. Il semplice e puro affetto che un’amica può dimostrare perchè è tutto ciò che può dare. 
E cosa facevo io? Molte volte ignoravo il tuo aiuto e ti sbattevo la porta in faccia. Adesso mi domando cosa tu pensassi quando mi comportavo così con te.
Pensavi forse che non ti eri data da fare per farmi capire quanto mi volessi bene? Che io ce l’avessi con te? Che io avessi tradito la tua amicizia che da sempre, dal primo giorno in cui ti vidi, sei stata disposta a donarmi?
Molte domande attraversano la mia mente in questo momento, domande che non mi ero mai posto precedentemente e che solo adesso passano spedite una dopo l’altra senza darmi sosta. Senza tregua. Mi stanno facendo impazzire e forse me lo merito perché non ti sono stato amico tanto quanto tu lo sei stata con me. È la punizione che mi spetta.
Sai Project Sun? Quella storia che ho scritto da cima a fondo fuori in balcone, durante un caldo pomeriggio d’estate mentre ero disteso sulla sdraio con le cuffie alle orecchie e la musica a palla? Suvvia c’eri anche tu, proprio accanto a me, sul tavolo, tentavi di convincermi a darti retta affinché mi distraessi, cercavi di strapparmi qualche minuto da dedicare solo a te… e ci riuscivi, furbetta; ce la facevi sempre, Dio solo sa come. Ad ogni modo, una frase ricorrente di quella storia è “cosa fareste se tutto ciò che reputate scontato vi venisse portato via?”
In quel momento non riuscivo ad immaginare che fosse rivolta anche a me, perché come un idiota ho sempre dato per scontato tutto. Anche la tua presenza nella mia vita, nei miei giorni e in ogni mio istante.
Adesso mi sei stata portata via. Ora ho capito come ci si sente. In una parte del romanzo viene data anche la risposta ma quando la scrissi credevo di starmi sbagliando. ‘Scrivi ciò che sai’ è la base per tirar fuori un buon romanzo, ma più di una volta ho chiuso un occhio su questa regola. In questo preciso istante mi sto rendendo conto di come fosse veritiero ciò che scrissi. 
Mi sento perso, come se nulla avesse più senso; posso fingere di star bene quanto voglio ma dentro il petto so che qualcosa non c’è più.Non riesco a pensare ad altro, forse non riuscirò a farlo per molto tempo. Tutto ciò a cui riesco a pensare sei solo tu.
 
Quando ti vidi per la prima volta. Pallina era morta da poco più di un mese e ancora avevo dentro la tristezza tipica di un bambino di otto anni per la morte del proprio gattino, ma tu… con quella tua aria furbetta e quegli occhi che riuscivano sempre ad ammaliarmi, sei riuscita a farla svanire via come se nulla fosse. I miei ti portarono a casa quando avevi appena cinque mesi, e fu allora che iniziò la nostra avventura fatta di gioie e sofferenze… beh per l’esattezza solo di gioie dato che tu non mi hai mai fatto soffrire in alcun modo. Come avresti potuto mai farlo?
Ti ricordi quando vedemmo per la prima volta il classico Disney 'Oliver & Company'? Io sdraiato sul letto e tu accoccolata sopra la mia pancia. Ricordo quanto mi emozionava perché associavo te al gattino protagonista e ogni volta che finiva la videocassetta ti riempivo di coccole che tu ricambiavi con le tue continue fusa, così sonore che anche la mamma riusciva a sentire dalla cucina.
E quando ti comprai il topolino meccanico con la convinzione che la parte “cacciatrice” di te sarebbe venuta fuori e invece fuoriusciva solo quella fifona? Lo tenevi sempre d’occhio quel dannato roditore automatico, e non appena si avvicinava tu eri sempre pronta a scappare via.
Non eri affatto nata per cacciare, e molte volte me ne hai dato dimostrazione, anche quando ti avvicinavi alla boccia dei pesci rossi… solo per berne l’acqua. Eppure il tuo istinto da felino era sempre vigile quando i passerotti decidevano di saltellare in balcone. Li osservavi accucciata in posizione di attacco, ma mai provasti ad acciuffarne uno. Sapevi bene che avresti fallito. E lo sapevo anche io.

Pensieri e ricordi confusi si sovrastano gli uni con gli altri. Ho paura di dimenticarli o di corromperli via via che il tempo passerà.

Come quando stavo rischiando di gettarti nel cassonetto dell’immondizia perché, da brava scema che eri, ti divertivi a infilarti dentro ogni sorta di scatola. Quella volta, se non fosse stato per il campanellino del collare che avevi e che ho sentito in tempo, le lacrime che fuoriescono adesso sarebbero fuoriuscite tanto tempo prima.
Ne vogliamo parlare della sveglia mattutina? Per anni è consistita in tre mini-sveglie: prima arrivava papà che mi scuoteva dicendomi di svegliarmi, poi arrivava mamma che apriva la serranda facendo entrare la luce del sole, e infine arrivavi tu che saltavi sul letto e mi svegliavi strusciandoti sul mio viso. Solo allora capivo che era il momento di alzarmi.

Sono molti i ricordi che mi legano a te e se dovessi scriverli tutti, potrei stare qui per ore e ore. E non mi stancherei mai, perché voglio ricordarti così. Nei momenti più belli di questa avventura che è finita proprio stanotte.
Credimi tesoro. Credimi, voglio davvero ricordarti in quel modo. 
Nella stessa maniera di quando guardavamo estasiati l’albero di Natale che ci sembrava enorme, se visto dal basso. Fu allora che scoprii che andavi matta per i capelli d’angelo, specialmente quelli rossi. Ogni singolo Natale ne prendevo uno e giocavo con te per interi minuti… adesso vorrei che quegli attimi fossero durati molto di più.
Voglio ricordarti come quelle volte in cui eri distesa sul mio letto e io, incapace di ripetere a mente gli argomenti che avevo da studiare per il giorno dopo, ti guardavo negli occhi e li ripetevo come se potessi dirmi se stessi commettendo errori o no.
Voglio ricordarti così, ma non ci riesco.

La tua età, ormai avanzata, ha fatto sì che la nostra avventura finisse. Ma lo sapevamo che sarebbe finita prima o poi, vero? Solo che io non immaginavo avrebbe trovato conclusione così in fretta.
Gli ultimi giorni sono stati i più duri per entrambi. Avevamo preso ormai consapevolezza che eravamo agli sgoccioli. I tuoi tentativi di reggerti sulle zampe senza successo, il rifiuto nel voler bere o ingerire cibo. L’avevi capito meglio di me che tutto stava per finire, chissà da quanto tempo. Io invece l’ho capito solo ieri.
Ti ho accarezzato, mentre evitavi di guardarmi e respiravi a fatica. Ti ho salutata, con la consapevolezza che con molta probabilità non ci saremmo rivisti.
«Ce la siamo spassata in questi anni, vero?» è stato quello che ti ho chiesto e tu, come se mi avessi capito, mi hai risposto con un sommesso miagolio e facendo le fusa.
Un bacio sulla tua piccola testa, il mio ultimo gesto.
Un “ti voglio bene”, la mia ultima affermazione.

Oggi, ho avuto la conferma di ciò che avevo previsto ieri.
«Litz è morta.» 
Così mi ha dato il buongiorno mamma.
Sembrava quasi che io l’avessi presa bene, in fin dei conti ero preparato a questa eventualità. Quando però ho deciso di vederti… forse non avrei dovuto, ma non potevo non farlo.
Sono uscito in balcone (proprio dove insieme abbiamo scritto la storia di Project Sun) e tu eri lì, dentro una cassettina, coperta da un piccolo panno: immobile, distesa su un fianco, i tuoi occhi aperti che però non riuscivano più a vedermi, nessun respiro…
Sono scoppiato a piangere e tutt'ora continuo a farlo ogni qual volta ci ripenso. Mi è stato detto che devo concentrarmi su altri momenti belli che abbiamo passato insieme, ma davvero non ce la faccio.

So cosa penseresti di me in questo momento.
Mi faresti capire che sono davvero un cretino nel piangere la tua scomparsa, perché è vero: sei svanita, il tuo corpo non è più qui accanto a me e non verrai più a svegliarmi la mattina. Però è anche vero che il tuo ricordo, quello che porterò sempre dentro il cuore ogni singolo secondo della mia vita, non svanirà mai; se piangerò dovrò farlo solo ed esclusivamente se anche quello dovesse svanire, perché significherà che ti avrò dimenticata per sempre e che per me sei davvero morta.
Mi diresti le stesse parole della canzone che ho messo all'inizio e che ti dedico con tutto il cuore.

'If I die tomorrow
I’d be all right
because I believe
that after we’re gone
the spirit carries on'

È difficile, amica mia. Dannatamente difficile non piangere la tua morte proprio adesso, ma ci proverò.
La nostra avventura, tesoro, è solo stata interrotta. Ovunque ti trovi adesso, dovrai semplicemente aspettarmi. Ok?
Un giorno riprenderemo da dove abbiamo interrotto.
È una promessa. 

Arrivederci cara. Ti voglio bene.




06 Marzo 2013

giovedì 10 gennaio 2013

Non voglio perderti


«Stai bene?»
La mia voce mi trae in inganno, e per un attimo ho creduto che quella non fosse una domanda, ma un vera affermazione. I miei occhi, stanchi e arrossati, osservano la ragazza seduta di fronte a me. Batto le palpebre lentamente con la speranza che quei due globi infuocati che al momento ho al posto degli occhi possano spegnersi per almeno qualche secondo. Non funziona, quando le riapro sembrano più incandescenti di prima.
Massaggio la tempia destra, le pulsazioni che avverto all’interno della mia testa sono tremende e a stento riesco a non lamentarmene. Non ho idea di cosa si provi a farsi versare una colata di lava bollente all’interno del cranio, ma credo che la sensazione sia pressappoco la medesima. Il respiro affaticato dall’elevata quantità di polvere presente nell’aria non agevola per nulla la situazione.
È proprio in quel momento che il mio udito capta un rumore estraneo al silenzio che regna sovrano.
Osservo la mia compagna di viaggio e ciò che leggo nei suoi occhi è puro panico: la sua voglia disperata di alzarsi e scappare in un luogo ancora più sicuro, nonostante sappia che non possa raggiungerlo in tempo. Ciò che però riesce a sorprendermi è la bravura con la quale riesce a mascherare il tutto, credo che chiunque la vedesse non noterebbe altro che un’innaturale calma. Tipico di chiunque non voglia far trasparire alcuna emozione. Sono tuttavia abituato a quelle finzioni: quegli occhi che in un tempo ormai lontano paragonavo a quelli di un cerbiatto impaurito, possono trarre in inganno chiunque, ma non il sottoscritto. La conosco fin troppo bene e oramai conosco ogni singola sfumatura del suo carattere, compresa quella finta indifferenza.
Come un tuono, il cui fragore maestoso viene preceduto da una scarica elettrica gracchiante, l’imminente passaggio del caccia bombardiere di ronda viene annunciato da un sibilo acuto che riesce a penetrare fin dentro la scatola cranica, insinuandosi nel cervello come la lunga nota vibrante di un enorme diapason. E infine eccolo: arriva a grande velocità, passando sopra la stazione di rifornimento abbandonata della vecchia interstatale che un tempo conduceva a Wellington; il rombo è talmente forte da far tremare le pareti stesse.
Alzo lo sguardo verso il soffitto in cui i neon, ormai morti da tempo, oscillano con un moto ipnotico. Un solo pensiero passa per la mia mente: spero che l’intero edificio non ci crolli addosso.
Dopo qualche istante l’assordante rumore svanisce, dalla parte opposta da cui era giunto.
È sempre così, da tempo ormai siamo abituati a tutto questo. Si fa in tempo a portare gli occhi al cielo, che sono già schizzati via tra le nuvole.
Non sappiamo ancora da dove partano, ed è ancora un’incognita la loro principale destinazione. Certamente il loro principale obbiettivo è quello di eliminare la minaccia che ci sovrasta dall’inizio di questa guerra senza fine.
Posso ritenermi fortunato a sapere cosa stia succedendo: in tanti sono tutt’ora all’oscuro del reale motivo per cui il mondo, come lo conoscevamo prima, sia cambiato drasticamente. Sopravvivere alla totale distruzione della propria città e riuscire a raccontarlo, non è una cosa che capita a tutti; non essere al corrente delle cause, dopo ciò che è successo, equivarrebbe ad aver avuto una benda davanti agli occhi durante tutta la durata della demolizione di Gore. Quasi ogni notte il mio subconscio ripercorre i momenti di quei giorni: fiamme, urla, demolizioni, quarantene, sangue e morte.
Il primo attacco fu quello più inaspettato e terrificante. Non riuscii a capire cosa stesse succedendo, ma ricordo che avvenne dopo cena. Tra il panico dei cittadini, le improvvise esplosioni e i boati terrificanti, scesi in strada e cominciai a correre come se non avessi mai fatto altro in vita mia. Il fiato corto e il sudore che scivolava dalla mia fronte, facendo sì che la maglietta aderisse al mio corpo, è ciò che ricordo maggiormente di quel momento. Due esplosioni dietro di me mi fecero ruzzolare, mentre detriti e frammenti di automobili piovevano dal cielo come piccole meteore. Assaporai il gusto metallico del sangue, e mi resi conto di quanto dolore potesse provocare una scheggia ferrosa di una lamiera infilzata alla coscia. La estrassi senza pensare a quali potessero essere le conseguenze: tutto ciò che volevo era correre e mettermi al riparo. L’urlo di dolore che quel pezzo di metallo fu in grado di far emergere dalla mia bocca, venne sovrastato da un’ulteriore esplosione proveniente dal lato opposto della strada. Disteso a terra e la gamba sanguinante, usai gli avambracci come scudo nella speranza che nulla potesse colpirmi. Dio solo sa quanto quella speranza fu vana: uno pneumatico, precipitato dall’alto, mi prese in pieno battendo contro la mia testa. Avvertii solo un forte e acuto dolore, la vista mi si appannò e i suoni stessi divennero confusi, sovrapponendosi gli uni con gli altri fin quando non si affievolirono del tutto nell’esatto momento in cui persi i sensi. Non so di preciso per quanto tempo rimasi in stato di incoscienza, ma al mio risveglio era ormai mattina inoltrata.
Giorni di agonia furono quelli che seguirono il primo attacco, non solo per la ferita alla coscia che feci medicare da chi di competenza, ma per ciò che mi si presentò davanti agli occhi osservando la mia città devastata: un incubo fuoriuscito dalla mente di un dormiente per insediarsi e mettere radici nel mondo reale.
Dopo una settimana avvenne il secondo attacco, e fu allora che li vidi. Giuro che in un primo momento avrei preferito morire anziché osservarli; gli occhi stessi si rifiutavano di scostarsi da quelle aberranti sagome, che ancora adesso mi spaventano come l’uomo nero terrorizza i bambini.
“Da dove provengono?” è la domanda principale che la maggior parte delle persone si è posta. Varie supposizioni sono nate in merito: i paranoici suppongono che loro siano il risultato di qualche esperimento andato storto, un’anomalia del tutto inaspettata da parte della B&Q Indutries; altri sostengono che siano delle nuove armi batteriologiche comandate da uomini senza scrupoli.
Io stesso non so a cosa pensare, sopravvivere ad essi è il mio unico obbiettivo e le loro origini non sono un argomento di particolare rilevanza ai fini della mia salvezza. L’unica cosa di cui sono sicuro è che sono vivo per miracolo, anche se non so se effettivamente sia da considerarsi un bene. Così come sono certo che la mia città, la mia Gore, è ridotta ormai ad un ammasso di macerie. Ad anni di distanza non riesco ancora a farmene una ragione, e con molta probabilità non riuscirò mai a trovarne una.
Tutti coloro ai quali tenevo non ci sono più: colleghi, amici, familiari. Sto cercando di andare avanti, sto cercando di sopravvivere, lasciandomi alle spalle ciò che è stato. Il passato è una brutta belva; è un figlio di puttana sempre pronto ad attenderti dietro l’angolo con un coltello in mano da piantare nel tuo petto. Ti fa soffrire, ricordandoti ciò che hai dimenticato. Che hai voluto dimenticare.
Tuttavia posso ritenermi fortunato dato che il passato può solo passare avanti una volta giunto di fronte a me. Io non posso dimenticare, non tutto almeno. Non mi è concesso perché ho lei da proteggere: la stessa ragazza che adesso è seduta a poca distanza da me. Vedere lei equivale a rivedere la mia intera famiglia, e so con certezza che lo stesso vale per lei.
Le lacrime versate per le nostre perdite sono ormai finite, e non nego che il più delle volte riusciamo a concederci qualche risata. I momenti di svago sono però minimi, quasi nulli, e stanno andando lentamente a svanire man mano che i giorni avanzano.
«Hai freddo?» le domando.
Non mi risponde. La sua schiena è poggiata al muro, la gamba destra è distesa lungo il pavimento ricoperto da detriti e calcinacci, mentre l’altra è portata al petto; le suole dei suoi stivali riportano i segni dei chilometri macinati per raggiungere quell’attuale rifugio; la mano sinistra è poggiata sul fodero del pugnale, legato saldamente ad una cinghia stretta alla coscia; accanto a lei, lo zaino dentro cui ci sono le nostre scarse provviste che basteranno per due settimane al massimo.  
«Hai freddo?» ripeto.
«Non credo ci sia bisogno di risponderti» dice lei, voltandosi con fare infastidito.
Mi rendo conto che dal giorno dell’incidente al campus, il nostro legame sembra essersi affievolito giorno dopo giorno. Chiunque ci vedesse, ci scambierebbe per due totali estranei.
Molte volte osservandola, proprio come in quel momento, mi accorgo di quanto sia cambiata nel corso degli anni: i suoi lunghi capelli castani e lisci le ricadono sul volto, coprendolo parzialmente; il corpo definito di una ventitreenne; la carnagione scura che mette in risalto quei profondi occhi marroni. Sono certo che se gli eventi degli ultimi anni non avessero avuto inizio, lei avrebbe avuto una fila interminabile di pretendenti, pronti a sfidarsi in una lotta all’ultimo sangue per poterle solo stringere la mano.
Abbozzo un sorriso, per poi scuotere la testa lentamente. Orgogliosa come sempre, un comportamento che ha adottato dal momento in cui abbiamo preso consapevolezza di dover contare solo sulle nostre forze per poter sopravvivere.
“Gli aiuti servono molto” le dissi una volta, quando trovammo rifugio nelle gallerie della metropolitana di Alexandra. “Ma molti aiuti non servono a niente.”
Da allora, quasi fosse stata una sorta di malia, il suo voler sempre contare sul prossimo svanì nel nulla. Da quel giorno, cominciò a voler badare a se stessa senza alcun misero sostegno. So che preferirebbe morire piuttosto che chiedere aiuto a qualcuno, e ciò non può far altro che scindere in due il mio animo: da una parte mi rende orgoglioso di lei, ma al tempo stesso ne sento il peso dentro il petto. Non potrei mai permettere nulla del genere, non riuscirei a restare con le mani in mano mentre lei risolve i suoi problemi da sola, combattendo contro la morte stessa.  
Tolgo il giubbotto, facendo attenzione che la spalla sinistra non venga lussata nuovamente. Un banale movimento sbagliato e il dolore sarebbe immane. Dopo una rimessa a posto alla bell’e meglio, è il minimo che possa succedere.
«Tieni» le dico tendendo il braccio destro per porgerle l’indumento. «Hai i brividi, stai tremando.»
«Sto bene.»
«Anche se così fosse, prendilo.»
«Ne hai più bisogno tu.»
«Ciò di cui ho bisogno è che tu possa riscaldarti» affermo scuotendo la mano nella quale stringo il giubbotto, per incitarla ad afferrarlo.
Finalmente si volta verso di me, le sopracciglia aggrottate e lo sguardo seccato. Non parla, ma rivolgendomi quell’espressione ho come l’impressione che l’abbia fatto. In quel momento mi sta odiando, con tutto il suo essere; sa che ha bisogno di me quanto io ne ho di lei, ma non riuscirebbe ad ammetterlo. Né a me, tantomeno a se stessa.
«Solo per questa volta» mi dice, agguantando una manica del giubbotto. «Ti restituirò il favore.»
«Non devi restituirmi niente» affermo, ritirando l’arto.
Appoggio la mano delicatamente sul braccio sinistro, all’altezza del bicipite. Me ne pento dopo un istante: una fitta di dolore esplode come un vulcano quiescente al momento del suo maestoso risveglio. Non posso far altro che stringere gli occhi e i denti, abbassando il capo mentre trattengo un verso di agonia.
«Dannata spalla del cazzo!» sbraito aumentando il tono della voce. «Quando passerà?»
«Se continuerai a toccarla, puoi star certo che la risposta sarà mai» afferma la ragazza con voce tranquilla, quasi che non sia per niente preoccupata dal fatto che il dolore si sia impossessato di me. «Non sappiamo quando riusciremo a trovare un centro medico ancora intatto, con qualcuno realmente capace di rimetterti in sesto.»
Quando rialzo lo sguardo verso di lei, noto che un sorriso beffardo è stampato sul suo volto. Scuote la testa mentre indossa il giubbotto che le ho dato, tirando poi su la cerniera.
«Cosa c’è?» le chiedo.
Il suo sorriso si allarga sempre di più, rendendolo più sbeffeggiatore di quanto non lo fosse già. «Nulla.»
«Nulla?»
«Nulla» ripete. «Semplicemente mi sorprende il fatto che tu abbia trentasei anni, e queste cose debba dirtele io.»
«Oh» sussurro per poi schiarirmi la gola. «È arrivata la sapientona della situazione. Colei senza la quale potrei vivere in questo mondo.»
«Esattamente» dice lei con soddisfazione.
«Ti ricordo, mia cara, che ti ho salvato il culo da più di una brutta situazione. Sei tu quella che non sopravvivrebbe un solo giorno se non ci fossi io» la informo, notando la sfacciataggine nel suo viso. Il lento movimento della sua testa che annuisce ad ogni mia parola e la sua faccia strafottente, accende in me quei risentimenti che ho tenuto soppressi troppo a lungo. Le mie parole escono dalla bocca come il flusso di un fiume, trattenuto da tempo a causa di una diga che è stata appena distrutta. «Cosa credi che ti sarebbe successo quando loro hanno attaccato il campus? Riesci ad immaginare che fine avresti fatto se non ti avessi presa per mano, costringendoti a correre? Ti credi sveglia, eppure se non vado errando tu sei stata la causa che ha portato alla rovina il gruppo al quale ci eravamo uniti.»
«È stato un errore. Tutt’ora non…»
«Un errore dici? Sai quale è il compito di una sentinella?»
Non risponde. Il sorriso beffardo sembra essere sparito, proprio come desideravo.
«Un’irresponsabile, ecco quello che sei. Avresti notato subito la minaccia che ci ha quasi portato alla morte, e che ha condannato altre dieci persone. Se solo tu non fossi stata tanto occupata ad andare dietro a come diavolo si chiamava, a quest’ora…»
Dominata dall’ira, la vedo scattare verso di me, senza darmi occasione di scostarmi o di concludere il discorso. Una mano fa pressione sul mio petto costringendomi a restare appoggiato alla parete, l’altra impugna il pugnale la cui fredda lama mi graffia la guancia. A pochi centimetri dal mio volto, lei digrigna puntando contro i miei occhi castani i suoi ricchi di odio.
Mi rendo conto che a causa di un riflesso incondizionato, la mia mano stringe il calcio della Glock estratta dalla fondina, premendola contro il suo addome. «Io abbasserei l’arma se fossi in te.»
«Si chiamava Warren!» mi urla contro. «L’unica persona che in tutti questi anni mi ha dato dimostrazione di tenere realmente a me!»
Quelle parole mi feriscono, come se quel pugnale avesse trafitto il mio cuore molteplici volte. Come può dirmi una cosa del genere? «Non era un valido motivo per condannare tutti a morte.»
«È stato un errore! Un fottuto errore!»
«Gli errori non sono ammessi, Eli!» grido mantenendo fisso lo sguardo sul suo. «Gli errori ti costano la vita! Non si è trattata della nostra per puro miracolo!»
Le mie parole sembrano avere l’effetto desiderato: non osa controbattere. D’altronde cosa avrebbe da ridire? Sento la sua mano tremare, la lama del pugnale mi solletica pericolosamente il viso.  
«Con un solo errore, le mie mani si sono sporcate di sangue innocente. Ne basterebbe solo un altro per ucciderci entrambi. Non possiamo permetterlo, mi capisci?» le domando. «Non posso permettere che io ti perda per colpa un maledettissimo errore!»
La lama viene allontanata dal mio viso. La osservo ancora, fin quando i suoi occhi non si distaccano dai miei. Li abbassa verso il fodero dentro cui ripone il pugnale. Indietreggia di qualche passo prima di sbattere la schiena contro il muro, accasciandosi poi al suolo e portando entrambe le ginocchia al petto. Nella mia mano la pistola è ancora puntata verso il nulla.
Cosa siamo diventati? Questa è la domanda che mi frulla in testa. Anni addietro non sarei riuscito neanche a pensare di ritrovarmi una lama puntata da parte sua, tantomeno che io arrivassi a premerle contro la canna di un’arma da fuoco.
«Perdonami» le dico con un filo di voce, riponendo la Glock nella fondina.
Lei scuote la testa, facendomi capire di non dovermi preoccupare.
Attimi di silenzio piombano in quel luogo. Attimi che si tramutano in secondi, e successivamente in minuti. È imbarazzante: nessuno dei due sa di preciso cosa dire per rompere quel muro che si è venuto a creare tra di noi.
“Il silenzio è d’oro” dicono, ma quando passi troppo tempo in solitudine e grazie al cielo ti è stata data la possibilità di avere qualcuno accanto, l’oro di cui è composto il silenzio si tramuta in merda. Che se lo goda chi ha ancora voglia di farlo.
Estraggo dal taschino un pacchetto di chewing gum, porgendolo verso di lei. «Ehi, vuoi?»
I suoi occhi si illuminano di stupore, distende le labbra in un sorriso incredulo, come se fosse ammaliata da ciò che le sto mostrando. «Oddio, non ci credo!» dice entusiasta.
Sorrido di gusto. Vederla gioire per una banalità come quella è un toccasana per il mio spirito.
«Dove le hai prese queste?» mi domanda, il sorriso ancora stampato sul volto che sembra farla tornare bambina.
«Dando un’occhiata in giro per gli scaffali mentre riposavi» la informo. «Non ho saputo resistere.»
Sembra quasi impossibile credere che fino a pochi minuti prima le nostre vite siano state minacciate l’una dall’altra. Quella gioia sembra aver cancellato l’attimo buio di poco fa, come se non fosse esistito. Probabilmente è meglio così: non sarei riuscito a convivere con il peso di aver puntato la canna di una pistola contro di lei.
Quel momentaneo attimo di felicità è qualcosa di magnifico. Vorrei che il tempo potesse bloccarsi, per poter vivere in eterno quel singolo istante e dimenticarmi una volta per tutte della nostra sopravvivenza. Ciò che voglio… ciò che vogliamo è vivere, non sopravvivere.
«Non masticavo una Gibsy Bum da una vita. Non ricordo neanche quando fu l’ultima volta che vidi una» dice lei scartando il chewing gum e portarlo alla bocca. Chiude gli occhi e si lascia sfuggire un verso di piacere. «Anguria e lime. Le mie preferite.»
«Ho avuto fortuna allora, era l’unico pacchetto rimasto» le dico riponendolo nel taschino della felpa. «Spero possa durare abbastanza a lungo da…»
«Quando riprenderemo a muoverci?» mi chiede interrompendomi. Quelle parole sono in grado di tagliare in due l’atmosfera magica e serena venutasi a creare, come un’enorme ascia insanguinata e arrugginita di un boia.  
«Tra qualche giorno. Siamo ancora troppo stanchi e spossati per poter ricominciare il viaggio. Inoltre si sta avvicinando un temporale, ho visto dei nuvoloni neri a Nord. Procedere con quelle condizioni climatiche è un suicidio» rispondo grattandomi il capo. «Credo che stare qui sia la soluzione migliore.»
«Ma potremmo trovare un rifugio migliore.»
«Chissà quante miglia dovremmo percorrere prima di trovarne uno. Sperando che sia vuoto, tra le altre cose.»
«E se dovessero…»
«Senti, non ho intenzione di vivere questi momenti di pace con un senso di perenne ansia. Il solo pensiero che possano piombare qui dentro mentre siamo indifesi mi terrorizza, ma noi non possiamo continuare a vivere nel terrore. Sarebbe l’inizio della fine.»
Lei sorride, bonariamente questa volta, mentre mastica la gomma che le ho appena offerto.
«Inganneremo il tempo in qualche modo» le faccio sapere. «Non toccheremo le provviste, comunque. Ho visto che tra gli scaffali ci sono molte confezioni di carne secca. Ti piace la carne secca, vero?»
«Non ci vado pazza, ma se non c’è altro…» si blocca quando nota che la sto osservando con severità, allorché scoppia a ridere divertita. «Suvvia, sto scherzando. Non mi creo alcun problema, te lo assicuro.»
Ridacchio anche io, quando il fragore di un tuono lontano mi porta a tacere. Credo che entrambi abbiamo capito che, volenti o nolenti, non potremo più uscire da lì fin quando la tempesta non sarà passata del tutto. «Ok, siamo ufficialmente bloccati qui.»
«Magari avessimo una consolle con cui divertirci» afferma lei sorridendo. «Come facevamo molto tempo fa. Ricordo ancora quando tu giocavi e io guardavo stupita la partita, come se stessi osservando un film interattivo. Saranno passati più di dieci anni.»
«A me sembra passato un secolo» le dico, abbassando lo sguardo. Ripensare a tutto ciò che ho perso da allora mi riempie il cuore di angoscia. Quando avverto la suola dei suoi stivali colpirmi leggermente alla gamba, rialzo lo sguardo rendendomi conto che il sorriso non è sparito dal suo viso.
«Io sono contenta di custodire nella mente e nel cuore quei ricordi. Mi fanno rendere conto di quanto io sia fortunata ad averti ancora accanto. Anche se il 90% delle volte odio il tuo carattere autoritario.»
«Se mi comporto così…»
«‘È solo per te’. Bla bla bla. Lo so già, me l’avrai ripetuto fino alla nausea. Ma non è una predica quella che voglio farti. Ciò che voglio farti capire è che…» si interrompe senza riuscire a dire altro.
Sorrido, scuotendo la testa. Non solo orgogliosa, ma anche restia a manifestare i propri sentimenti. Proprio tale e quale a questo idiota che poco prima le ha puntato contro una pistola.
«Anche io ti voglio bene. Più di quanto tu possa immaginare» le dico. «E a tal proposito, dentro la tasca interna del giubbotto c’è un regalo per te. Non so se l’undici Settembre sia passato da qualche giorno o da qualche mese; da quando non teniamo più il conteggio dei giorni, direi che è impossibile stabilirlo. Però tenevo a fartelo avere quando sarebbe stato il momento giusto.»
Senza pensarci due volte, la vedo controllare la tasca interna del giubbotto con la mano. Da essa fuoriesce una catenina con un pendente: un cristallo sfaccettato e dalla forma irregolare. Il suo colore viola sembra risplendere dall’interno, ma la particolarità di quel ciondolo sta nell’essere avvolto da sottilissimi cavi elettrici che lo rendono più accattivante.
«È… è fantastico» sussurra afferrando la catenina e facendo penzolare il cristallo davanti ai suoi occhi. «Non credo di aver mai visto nulla del genere.»
«Lieto che ti sia piaciuto» le dico avanzando a gattoni verso di lei per aiutarla ad indossare il nuovo regalo. «Non perderla, mi raccomando.» 
«Non lo farò, te lo prometto» afferma lei non smettendo di osservare il ciondolo. «Grazie… zio.»